mercoledì, ottobre 10, 2007

Una nuova rivista On-line "Islamicità"

Voglio segnalarVi questa rivista On-line che incoraggia il dialogo indispensabile fra L'Islam e il Cristianesimo.
Islamicità
“Islamicità” si prefigge come obiettivo lo scambio “tra l’intellettualità islamica e quella di altre religioni, correnti filosofiche, movimenti culturali”.


Vedi anche il Blog di Sandro Magister " Settimo cielo"

martedì, ottobre 09, 2007

Il prefetto dice sì al burqa.

«Per motivi religiosi, si può indossare. Basta sottoporsi all'identificazione».

Il caso Treviso divide il governo. La legge del 1975 e la circolare del 2004: il caos delle norme

Se la decisione del prefetto di Treviso, Vittorio Capocelli, di legittimare il burqa dovesse accreditarsi come riferimento giuridico e amministrativo a livello nazionale, prossimamente le donne islamiche completamente velate potrebbero frequentare le scuole, essere assunte nei luoghi di lavoro e circolare liberamente ovunque in Italia.

Si tratta di un'ipotesi tutt'altro che remota, visto che ha subito incassato l'approvazione del ministro per la Famiglia, Rosy Bindi. Il caso è stato sollevato dal Corriere del Veneto il 6 ottobre con un articolo di Federica Baretti dal titolo «Il prefetto sfida lo sceriffo: sì al burqa». Dove lo «sceriffo» è il prosindaco leghista Giancarlo Gentilini, l'antesignano della «tolleranza zero» nei confronti dei clandestini e dei delinquenti. E da un secondo articolo del 7 ottobre di Gianni Favero che sintetizza il pensiero della Bindi: «Il burqa? Va tollerato. Il vero rischio è Gentilini».

Cominciamo dai fatti. È di tre anni fa l'ordine di Gentilini alla polizia municipale di arrestare le donne con il burqa ai sensi dell'articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta di fare uso in luogo pubblico, salvo giustificato motivo, di caschi o di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona. Con il suo tono notoriamente colorito Gentilini ha sentenziato: «Il burqa? Una mascherata permessa a Carnevale, ma che non può essere tollerata tutti i giorni dell'anno». Ebbene, il 5 ottobre scorso, al termine di una riunione con la Consulta per l'immigrazione e l'associazione Migrantes, Capocelli ha emesso la seguente decisione: «Se per motivi religiosi una persona indossa il burqa, lo può fare, basta che si sottoponga all'identificazione e alla rimozione del velo».

Il prefetto fonda probabilmente il suo atteggiamento sulla circolare del Dipartimento della Polizia del dicembre 2004, che legittima il burqa in quanto «segno esteriore di una tipica fede religiosa» e una «pratica devozionale ». Una posizione che dovrebbe essere formalizzata in un documento da rendere noto nei prossimi mesi. Il giorno successivo il ministro Bindi si schiera dalla parte del prefetto: «Allo stesso modo con il quale vogliamo vedere i crocifissi appesi nelle nostre aule siamo tenuti a essere rispettosi del velo con cui le donne islamiche si coprono il volto. Se viene liberamente portato è un segno della propria civiltà». Da notare che la Bindi difende il velo che copre il volto, non semplicemente i capelli, quindi appunto il burqa.

Diciamo subito che la posizione di Capocelli e della Bindi sul burqa non corrisponde a quella del presidente del Consiglio Prodi e del ministro dell'Interno Amato. «Se vuoi indossare il velo va bene, ma deve essere possibile vederti. Non puoi coprirti il volto», aveva detto Prodi il 17 ottobre 2006. E due giorni dopo Amato aveva bocciato il burqa qualificandolo una «offesa alla dignità della donna». E nuovamente in un'intervista a Federico Geremicca sulla Stampa del 28 settembre scorso Amato ha ribadito: «Siamo d'accordo a vietare qualunque cosa copra interamente il volto, e dunque il burqa, perché offende la dignità delle donne islamiche».
Così come il burqa è stato considerato illegale dal procuratore della Repubblica di Cremona Adriano Padula il 25 settembre 2005, specificando che è «un comportamento vietato dalla legge». Da allora la polizia locale ha l'ordine di fermare, condurre in Questura e denunciare le donne che circolano in luoghi pubblici con il burqa. E il 14 ottobre del 2005 l'allora ministro della Giustizia, il leghista Roberto Castelli, disse: «Girare per strada indossando il burqa è illegale e la religione islamica è profondamente intollerante perché rivendica il diritto, in nome delle proprie convinzioni religiose, a violare le leggi dello Stato».

Che cosa sta dunque succedendo? Mi sembra evidente che ci sia un profondo contrasto tra la legge 152/75 e la circolare del Dipartimento della Polizia del 2004. E che sarebbe opportuno porre fine a questo conflitto abrogando questa circolare. Così come mi sembra evidente che il prefetto, che è un funzionario amministrativo, abbia travalicato le sue competenze e prerogative invadendo il terreno della magistratura e della politica. E che sarebbe pertanto opportuno che tornasse indietro sui suoi passi.

Ma più in generale s'impone una seria riflessione su che cosa sta succedendo in quest'Italia che dopo essersi innamorata del velo islamico e aver legittimato la presenza delle donne velate in tutti i luoghi pubblici, si sta piegando sempre più ai diktat dei predicatori della sharia, la legge islamica, permettendo che seppur clandestinamente stiano proliferando le scuole coraniche all'ombra di moschee dove si predica l'odio, che negli ospedali pubblici le pazienti islamiche possano essere assistite solo da donne medico e che possano disporre di piscine e spiagge separate perché le loro nudità non vengano viste dai maschi, che le ragazze crescano discriminate e talvolta segregate nelle proprie case-carceri affinché non vengano «contaminate» dalla società occidentale «perversa». Ci rendiamo conto che il vero velo, questo sì integrale, è quello che ci sta obnubilando la mente e portandoci diritti verso il suicidio della nostra civiltà?

Magdi Allam da Il Corriere

venerdì, ottobre 05, 2007

Ecco a voi lo sviluppo INSOSTENIBILE!!

Quattro dati (rilevati dalla studiosa Elizabeth C. Economy) e una brevissima riflessione sulla politica ambientale cinese.
Consumo di carbone nel 2006: 2,4 miliardi di tonnellate, più di Stati Uniti e Giappone messi assieme.
Consumo di carbone nel 2000: 1 miliardo di tonnellate. La Cina aveva programmato di raddoppiare nel 2020. La boa é stata raggiunta con 14 anni di anticipo. Segno che qualcosa è sfuggito al controllo.
Numero di città con problemi di rifornimento idrico: 660.
Numero di città con gravi o gravissimi problemi di rifornimento idrico: 110.
Aggiungiamo che nel 2007 la Cina é diventato il Paese al mondo che emette nell'atmosfera più gas derivati dal carbonio. E che - senza rallentamenti della marcia - nel 2025 il "contributo" cinese sarà pari a quello di tutti i membri dell'Ocse.
Questi numeri non sono un peso solo per la Cina. Lo sono per il pianeta intero. Ecco perchè é giusto osservare con attenzione ciò che Pechino decide in materia ambientale.
Non vi é dubbio che la sensibilità del governo sia cresciuta. Non passa giorno senza che non vi sia la promessa di un investimento importante per frenare il degrado. Ma é sufficiente?
Una seria politica dell'ambiente ha bisogno di tre condizioni per essere efficace:
1) una informazione corretta e trasparente, una mappatura sincera del disastro, la rimozione delle censure, la denuncia delle complicità politiche di cui hanno goduto le industrie inquinanti;
2) un sistema nel quale le autorità che hanno o coperto o contribuito al dramma ambientale siano responsabili e ne paghino le conseguenze;
3) un sistema giuridico e legale indipendente in grado di investigare e condannare.
La sensazione è che la Cina su queste tre condizioni sia ancora molto indietro, al punto zero o quasi. Che fatichi o che non voglia rendere più profondo il suo cambiamento. Addirittura che abbia compiuto qualche passo indietro.
Molti dicono: diamo alla Cina il tempo di avviare e completare il percorso. Giusto.
Il guaio è che il cielo, l'acqua, la terra, la natura non aspettano. Il disastro non é lontano. Allora è doveroso insistere. Il modello di sviluppo cinese riguarda la vita, la qualità della vita, di tutto il globo, di tutti noi.
Le riforme economiche senza qualche correttivo politico di sostanza porteranno più ricchezza. Ma a quale costo per la Cina e per noi? Abdicare dalle denunce, garbate ma ferme, è un suicidio.

Dal Corriere.it di Fabio Cavalera

giovedì, ottobre 04, 2007

Un articolo tristemente ironico... viviamo in una società davvero malata!!



SVIZZERA, RESPINTA UNA SIGNORA CHE ASPETTAVA IL SUO TURNO

Troppe bare per le scale, condominio blocca il suicidio assistito





Volete suicidarvi secondo i crismi della legalità, con l’ausilio di personale specializzato?

In Svizzera si può fare, grazie ad associazioni come Dignitas, che aiutano chi ha
deciso di morire a realizzare il proprio desiderio.

Basta avere l’accortezza di scegliere un luogo appartato, dove non ci siano vicini di casa che possano cadere in depressione e sentirsi danneggiati; altrimenti si corre il rischiodi veder interrompere la cerimonia degli addii dall’irruzione della polizia. A Zurigo
morire è un diritto, i volontari che si occupano di suicidio assistito appartengono a organizzazioni umanitarie legalmente riconosciute, però pare che nessun quartiere li voglia ospitare. I suicidi turbano la gente comune,che vuole vivere tranquilla a casa propria, senza essere infastidita dal lugubre andirivieni di cadaveri nell’appartamento accanto. L’associazione Dignitas è stata già costretta a traslocare una prima volta, perché tutto quel traffico di bare disturbava i
residenti. E anche stavolta, nel tranquillo sobborgo di Staefa, i condomini si sono compattamente schierati contro la mesta processione di aspiranti suicidi che bussa alla porta dell’associazione.

Da quando si sono installati nella nuova sede, i membri di Dignitas hanno aiutato già 6 persone a togliersi la vita, ma secondo le stime presentate in tribunale i candidati sarebbero diventati ben 200 in un anno, se il gruppo avesse proseguito la propria attività. La cifra costituirebbe un record statistico se non fosse dovuta in buona parte al cosiddetto “turismo suicida”, quello di chi rifiuta di suicidarsi secondo classici metodi un po’ rozzi, come il gas o i tranquillanti, e preferisce affidarsi agli esperti. In Svizzera, dove peraltro l’eutanasia vera e propria è vietata, il suicidio assistito è legale fin dagli anni 40, e nel tempo il numero di persone che provengono da altri paesi è notevolmente aumentato. La prospettiva di vedere uscire dall’inquietante appartamento circa 4 bare a settimana, considerando le pause delle vacanze, ha atterrito i vicini di casa. “Non siamo contro il suicidio assistito – dice Christiane Keller, una delle abitanti del palazzo – ma tutto questo costituisce per noi un peso enorme, e la salute dei residenti ne ha sofferto”.
Troppo stress: il contatto costante con la morte rovina la vita. E’ cominciata così una lotta a colpi
di carte bollate tra i condomini ribelli e l’associazione per il diritto al suicidio. Qualche
settimana fa Dignitas ha ricevuto un’ingiunzione con cui le si intimava di cessare le attività,
o di chiedere la modifica della destinazione d’uso dell’immobile: se voleva proseguire nelle pratiche eutanasiche doveva ottenere che l’abitazione venisse classificata ufficialmente
come “appartamento per il suicidio assistito”. Quando i vicini hanno constatato che l’organizzazione ignorava il divieto, hanno chiamato le forze dell’ordine, che sono
arrivate, hanno messo i lucchetti all’appartamento e buttato fuori una signora che pazientemente aspettava il suo turno.
Not in my backyard, non a casa mia. In Italia è il criterio che impedisce di costruire un
inceneritore o di tracciare il percorso per l’alta velocità, senza che una comunità montana
insorga, o un’associazione ambientalista protesti. Ma oggi la logica del “fatelo pure, ma
un po’ più in là” si allarga fino a lambire i temi etici. Fate qualunque cosa, purché resti
un affare privato, e non si chieda in nessun modo il coinvolgimento degli altri: ciascuno
nel suo appartamento, murato nelle sue sofferenze solitarie.

Eugenia Roccella da "Il Foglio"

martedì, ottobre 02, 2007

Il Myanmar è il Paese più corrotto del mondo

Governi dittatoriali, guerra, “cattiva” influenza di un Vicino potente ma soprattutto la grande povertà sono le principali cause della corruzione, secondo il rapporto 2007 di Transparency international. Peggiora la situazione in Russia e Asia centrale. Le responsabilità delle multinazionali.



Tokyo (AsiaNews/Agenzie) – Aumenta la corruzione nei Paesi più poveri, spesso fomentata “da ditte multinazionali di Paesi ricchi” per trarre vantaggi illeciti. E’ quanto emerge dal Rapporto 2007 di Transparency International (Ti), che vede il Myanmar al primo posto come Paese più corrotto, insieme alla Somalia. “Queste ditte – prosegue il rapporto – considerano la corruzione una legittima strategia aziendale” per operare nei mercati esteri e ottenere vantaggi di ogni tipo.

Sotto accusa anche “le istituzioni finanziarie internazionali, che permettono a funzionari corrotti di far sparire e riciclare i fondi”, prosegue il rapporto citando gli esempi di Filippine e Nigeria, dove i funzionari lucrano milioni di dollari. Anche una situazione di guerra favorisce l’espandersi del fenomeno, come in Iraq e Afghanistan che figurano al 3° e 7° posto, come pure un governo dittatoriale come il Myanmar.

“Un sistema giudiziario indipendente e professionale – dice ancora il rapporto – è decisivo per eliminare l’impunità e rinforzare un’applicazione imparziale della legge”, mentre è “improbabile” alcun miglioramento se non è possibile colpire i funzionari corrotti e privarli dei guadagni illeciti.

Il 40% dei 180 Stati considerati sono classificati come “molto corrotti” e si tratta dei Paesi più poveri del mondo. Tra essi Uzbekistan (5°), Laos (10°), Turkmenistan, Cambogia e Bangladesh (14° ex aequo), Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Azerbaigian (insieme al 20° posto), ma anche la Russia (35° posto, insieme all’Indonesia).

Negli Stati ex sovietici dell’Asia centrale la situazione è molto peggiorata rispetto al 2006. Miklos Marschall, direttore per Europa ed Asia centrale di Ti, ritiene dipenda dalla “crescente influenza della Russia”, che peraltro ha un indice di corruzione poco minore di questi Stati. “La comunità finanziaria internazionale ritiene che in Russia il settore pubblico sia abbastanza corrotto – prosegue – e, ciò che è più allarmante, la situazione va peggiorando”.

Buone notizie per Singapore (177°), Hong Kong (167°) e Giappone (162°, meglio degli Stati Uniti al 160° posto), mentre la corruzione rimane “diffusa” in India e Cina (insieme alla posizione n.101).

Huguette Labelle, presidente di Ti, commenta che la corruzione “assorbe immense risorse che dovrebbero essere destinate a sanità, istruzione e infrastrutture”. “Ma i Paesi poveri non possono da soli sostenere l’impegno di una riforma” per eliminare connivenze e nepotismo: sono invece i “donatori internazionali” e i Paesi ricchi che debbono favorire questo cambiamento e vigilare che la loro attività non favorisca la corruzione.

lunedì, ottobre 01, 2007

Conosciamo Than Shwe capo della giunta militare in Birmania

Un dittatore tra superstizione e ferocia
Il generale ha mostrato spietatezza nell'eliminare gli avversari e tende ad apparire il meno possibile in pubblico


Un bizzarro miscuglio di Pol Pot e Augusto Pinochet. Questo è per tanti osservatori internazionali il generale Than Shwe, 74 anni, capo della giunta militare golpista che opprime Myanmar, l’ex Birmania. L’aspetto del capo del Consiglio statale per la pace e lo sviluppo (SPDC), questa la stridente denominazione con cui si definisce la giunta golpista, ricorda quella del dittatore cileno, con la sua divisa appesantita da medaglie. La poca propensione ad apparire, invece, ricorda quella del capo dei Khmer Rossi. A tutti e due l’accomuna la spietatezza nell’eliminare gli avversari e nell’opprimere il proprio stesso popolo. Reporters sans Frontieres, l’organizzazione non governativa che si batte per la libertà di stampa, lo annovera tra i "Predatori" del diritto d’informazione e lo descrive come un uomo spesso affetto da "crisi di paranoia", la cui voce non è conosciuta dal suo popolo.
LA NUOVA CAPITALE - Ancor meno oggi, dopo che dal 2005 ha letteralmente deportato l’intera amministrazione dalla capitale storica a Pyinmanaw, la nuova "capitale": un villaggio malsano nel centro del paese. Il passo, da un lato, è servito a piegare la volontà di tanti esponenti dell’amministrazione civile, in cui serpeggia l’insoddisfazione e, quindi, i germi d’una possibile rivolta. D’altro canto, secondo diversi osservatori, sarebbe una specie di preludio d’una restaurazione monarchica, in cui Than Shwe diventerebbe re.
SUPERSTIZIONE E FEROCIA - Superstizioso in maniera ossessiva, il



generale nato nella zona di Mandalay ha iniziato la sua ascesa nell’esercito, facendo parte tra il 1953 e il 1960 del Dipartimento per le operazioni psicologiche e la propaganda. Poi partecipa alla repressione della guerriglia dell’etnia Karen, segnalandosi per una particolare ferocia. E’ nel 1962 che sale sul carro giusto, unendosi al colpo di stato capeggiato dal generale Ne Win. Diviene, cioè, uno dei protagonisti degli eventi che pongono fine al sogno democratico della Birmania post-indipendenza, iniziato col padre della patria Aung San, assassinato nel 1947 (Aung San è il padre del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che Than costringe agli arresti domiciliari).
Entrato così nel partito unico al potere, Than Shwe è poi emerso come uno dei nuovi potenti dopo l’insurrezione repressa del 1988. Con il secondo colpo di Stato del ’90 ha ulteriormente allargato il suo potere, allontanando a uno a uno i possibili avversari. Nel ’92 è diventato il numero uno della giunta, imponendo al predecessore Saw Maung le dimissioni «per motivi di salute». Negli anni successivi ha consolidato il suo dominio al punto da abolire, nel 2003, la norma che imponeva il pensionamento dalle cariche politiche al compimento dei 70 anni: e Than Shwe ovviamente è del ’33.

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