mercoledì, ottobre 10, 2007

Una nuova rivista On-line "Islamicità"

Voglio segnalarVi questa rivista On-line che incoraggia il dialogo indispensabile fra L'Islam e il Cristianesimo.
Islamicità
“Islamicità” si prefigge come obiettivo lo scambio “tra l’intellettualità islamica e quella di altre religioni, correnti filosofiche, movimenti culturali”.


Vedi anche il Blog di Sandro Magister " Settimo cielo"

martedì, ottobre 09, 2007

Il prefetto dice sì al burqa.

«Per motivi religiosi, si può indossare. Basta sottoporsi all'identificazione».

Il caso Treviso divide il governo. La legge del 1975 e la circolare del 2004: il caos delle norme

Se la decisione del prefetto di Treviso, Vittorio Capocelli, di legittimare il burqa dovesse accreditarsi come riferimento giuridico e amministrativo a livello nazionale, prossimamente le donne islamiche completamente velate potrebbero frequentare le scuole, essere assunte nei luoghi di lavoro e circolare liberamente ovunque in Italia.

Si tratta di un'ipotesi tutt'altro che remota, visto che ha subito incassato l'approvazione del ministro per la Famiglia, Rosy Bindi. Il caso è stato sollevato dal Corriere del Veneto il 6 ottobre con un articolo di Federica Baretti dal titolo «Il prefetto sfida lo sceriffo: sì al burqa». Dove lo «sceriffo» è il prosindaco leghista Giancarlo Gentilini, l'antesignano della «tolleranza zero» nei confronti dei clandestini e dei delinquenti. E da un secondo articolo del 7 ottobre di Gianni Favero che sintetizza il pensiero della Bindi: «Il burqa? Va tollerato. Il vero rischio è Gentilini».

Cominciamo dai fatti. È di tre anni fa l'ordine di Gentilini alla polizia municipale di arrestare le donne con il burqa ai sensi dell'articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta di fare uso in luogo pubblico, salvo giustificato motivo, di caschi o di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona. Con il suo tono notoriamente colorito Gentilini ha sentenziato: «Il burqa? Una mascherata permessa a Carnevale, ma che non può essere tollerata tutti i giorni dell'anno». Ebbene, il 5 ottobre scorso, al termine di una riunione con la Consulta per l'immigrazione e l'associazione Migrantes, Capocelli ha emesso la seguente decisione: «Se per motivi religiosi una persona indossa il burqa, lo può fare, basta che si sottoponga all'identificazione e alla rimozione del velo».

Il prefetto fonda probabilmente il suo atteggiamento sulla circolare del Dipartimento della Polizia del dicembre 2004, che legittima il burqa in quanto «segno esteriore di una tipica fede religiosa» e una «pratica devozionale ». Una posizione che dovrebbe essere formalizzata in un documento da rendere noto nei prossimi mesi. Il giorno successivo il ministro Bindi si schiera dalla parte del prefetto: «Allo stesso modo con il quale vogliamo vedere i crocifissi appesi nelle nostre aule siamo tenuti a essere rispettosi del velo con cui le donne islamiche si coprono il volto. Se viene liberamente portato è un segno della propria civiltà». Da notare che la Bindi difende il velo che copre il volto, non semplicemente i capelli, quindi appunto il burqa.

Diciamo subito che la posizione di Capocelli e della Bindi sul burqa non corrisponde a quella del presidente del Consiglio Prodi e del ministro dell'Interno Amato. «Se vuoi indossare il velo va bene, ma deve essere possibile vederti. Non puoi coprirti il volto», aveva detto Prodi il 17 ottobre 2006. E due giorni dopo Amato aveva bocciato il burqa qualificandolo una «offesa alla dignità della donna». E nuovamente in un'intervista a Federico Geremicca sulla Stampa del 28 settembre scorso Amato ha ribadito: «Siamo d'accordo a vietare qualunque cosa copra interamente il volto, e dunque il burqa, perché offende la dignità delle donne islamiche».
Così come il burqa è stato considerato illegale dal procuratore della Repubblica di Cremona Adriano Padula il 25 settembre 2005, specificando che è «un comportamento vietato dalla legge». Da allora la polizia locale ha l'ordine di fermare, condurre in Questura e denunciare le donne che circolano in luoghi pubblici con il burqa. E il 14 ottobre del 2005 l'allora ministro della Giustizia, il leghista Roberto Castelli, disse: «Girare per strada indossando il burqa è illegale e la religione islamica è profondamente intollerante perché rivendica il diritto, in nome delle proprie convinzioni religiose, a violare le leggi dello Stato».

Che cosa sta dunque succedendo? Mi sembra evidente che ci sia un profondo contrasto tra la legge 152/75 e la circolare del Dipartimento della Polizia del 2004. E che sarebbe opportuno porre fine a questo conflitto abrogando questa circolare. Così come mi sembra evidente che il prefetto, che è un funzionario amministrativo, abbia travalicato le sue competenze e prerogative invadendo il terreno della magistratura e della politica. E che sarebbe pertanto opportuno che tornasse indietro sui suoi passi.

Ma più in generale s'impone una seria riflessione su che cosa sta succedendo in quest'Italia che dopo essersi innamorata del velo islamico e aver legittimato la presenza delle donne velate in tutti i luoghi pubblici, si sta piegando sempre più ai diktat dei predicatori della sharia, la legge islamica, permettendo che seppur clandestinamente stiano proliferando le scuole coraniche all'ombra di moschee dove si predica l'odio, che negli ospedali pubblici le pazienti islamiche possano essere assistite solo da donne medico e che possano disporre di piscine e spiagge separate perché le loro nudità non vengano viste dai maschi, che le ragazze crescano discriminate e talvolta segregate nelle proprie case-carceri affinché non vengano «contaminate» dalla società occidentale «perversa». Ci rendiamo conto che il vero velo, questo sì integrale, è quello che ci sta obnubilando la mente e portandoci diritti verso il suicidio della nostra civiltà?

Magdi Allam da Il Corriere

venerdì, ottobre 05, 2007

Ecco a voi lo sviluppo INSOSTENIBILE!!

Quattro dati (rilevati dalla studiosa Elizabeth C. Economy) e una brevissima riflessione sulla politica ambientale cinese.
Consumo di carbone nel 2006: 2,4 miliardi di tonnellate, più di Stati Uniti e Giappone messi assieme.
Consumo di carbone nel 2000: 1 miliardo di tonnellate. La Cina aveva programmato di raddoppiare nel 2020. La boa é stata raggiunta con 14 anni di anticipo. Segno che qualcosa è sfuggito al controllo.
Numero di città con problemi di rifornimento idrico: 660.
Numero di città con gravi o gravissimi problemi di rifornimento idrico: 110.
Aggiungiamo che nel 2007 la Cina é diventato il Paese al mondo che emette nell'atmosfera più gas derivati dal carbonio. E che - senza rallentamenti della marcia - nel 2025 il "contributo" cinese sarà pari a quello di tutti i membri dell'Ocse.
Questi numeri non sono un peso solo per la Cina. Lo sono per il pianeta intero. Ecco perchè é giusto osservare con attenzione ciò che Pechino decide in materia ambientale.
Non vi é dubbio che la sensibilità del governo sia cresciuta. Non passa giorno senza che non vi sia la promessa di un investimento importante per frenare il degrado. Ma é sufficiente?
Una seria politica dell'ambiente ha bisogno di tre condizioni per essere efficace:
1) una informazione corretta e trasparente, una mappatura sincera del disastro, la rimozione delle censure, la denuncia delle complicità politiche di cui hanno goduto le industrie inquinanti;
2) un sistema nel quale le autorità che hanno o coperto o contribuito al dramma ambientale siano responsabili e ne paghino le conseguenze;
3) un sistema giuridico e legale indipendente in grado di investigare e condannare.
La sensazione è che la Cina su queste tre condizioni sia ancora molto indietro, al punto zero o quasi. Che fatichi o che non voglia rendere più profondo il suo cambiamento. Addirittura che abbia compiuto qualche passo indietro.
Molti dicono: diamo alla Cina il tempo di avviare e completare il percorso. Giusto.
Il guaio è che il cielo, l'acqua, la terra, la natura non aspettano. Il disastro non é lontano. Allora è doveroso insistere. Il modello di sviluppo cinese riguarda la vita, la qualità della vita, di tutto il globo, di tutti noi.
Le riforme economiche senza qualche correttivo politico di sostanza porteranno più ricchezza. Ma a quale costo per la Cina e per noi? Abdicare dalle denunce, garbate ma ferme, è un suicidio.

Dal Corriere.it di Fabio Cavalera

giovedì, ottobre 04, 2007

Un articolo tristemente ironico... viviamo in una società davvero malata!!



SVIZZERA, RESPINTA UNA SIGNORA CHE ASPETTAVA IL SUO TURNO

Troppe bare per le scale, condominio blocca il suicidio assistito





Volete suicidarvi secondo i crismi della legalità, con l’ausilio di personale specializzato?

In Svizzera si può fare, grazie ad associazioni come Dignitas, che aiutano chi ha
deciso di morire a realizzare il proprio desiderio.

Basta avere l’accortezza di scegliere un luogo appartato, dove non ci siano vicini di casa che possano cadere in depressione e sentirsi danneggiati; altrimenti si corre il rischiodi veder interrompere la cerimonia degli addii dall’irruzione della polizia. A Zurigo
morire è un diritto, i volontari che si occupano di suicidio assistito appartengono a organizzazioni umanitarie legalmente riconosciute, però pare che nessun quartiere li voglia ospitare. I suicidi turbano la gente comune,che vuole vivere tranquilla a casa propria, senza essere infastidita dal lugubre andirivieni di cadaveri nell’appartamento accanto. L’associazione Dignitas è stata già costretta a traslocare una prima volta, perché tutto quel traffico di bare disturbava i
residenti. E anche stavolta, nel tranquillo sobborgo di Staefa, i condomini si sono compattamente schierati contro la mesta processione di aspiranti suicidi che bussa alla porta dell’associazione.

Da quando si sono installati nella nuova sede, i membri di Dignitas hanno aiutato già 6 persone a togliersi la vita, ma secondo le stime presentate in tribunale i candidati sarebbero diventati ben 200 in un anno, se il gruppo avesse proseguito la propria attività. La cifra costituirebbe un record statistico se non fosse dovuta in buona parte al cosiddetto “turismo suicida”, quello di chi rifiuta di suicidarsi secondo classici metodi un po’ rozzi, come il gas o i tranquillanti, e preferisce affidarsi agli esperti. In Svizzera, dove peraltro l’eutanasia vera e propria è vietata, il suicidio assistito è legale fin dagli anni 40, e nel tempo il numero di persone che provengono da altri paesi è notevolmente aumentato. La prospettiva di vedere uscire dall’inquietante appartamento circa 4 bare a settimana, considerando le pause delle vacanze, ha atterrito i vicini di casa. “Non siamo contro il suicidio assistito – dice Christiane Keller, una delle abitanti del palazzo – ma tutto questo costituisce per noi un peso enorme, e la salute dei residenti ne ha sofferto”.
Troppo stress: il contatto costante con la morte rovina la vita. E’ cominciata così una lotta a colpi
di carte bollate tra i condomini ribelli e l’associazione per il diritto al suicidio. Qualche
settimana fa Dignitas ha ricevuto un’ingiunzione con cui le si intimava di cessare le attività,
o di chiedere la modifica della destinazione d’uso dell’immobile: se voleva proseguire nelle pratiche eutanasiche doveva ottenere che l’abitazione venisse classificata ufficialmente
come “appartamento per il suicidio assistito”. Quando i vicini hanno constatato che l’organizzazione ignorava il divieto, hanno chiamato le forze dell’ordine, che sono
arrivate, hanno messo i lucchetti all’appartamento e buttato fuori una signora che pazientemente aspettava il suo turno.
Not in my backyard, non a casa mia. In Italia è il criterio che impedisce di costruire un
inceneritore o di tracciare il percorso per l’alta velocità, senza che una comunità montana
insorga, o un’associazione ambientalista protesti. Ma oggi la logica del “fatelo pure, ma
un po’ più in là” si allarga fino a lambire i temi etici. Fate qualunque cosa, purché resti
un affare privato, e non si chieda in nessun modo il coinvolgimento degli altri: ciascuno
nel suo appartamento, murato nelle sue sofferenze solitarie.

Eugenia Roccella da "Il Foglio"

martedì, ottobre 02, 2007

Il Myanmar è il Paese più corrotto del mondo

Governi dittatoriali, guerra, “cattiva” influenza di un Vicino potente ma soprattutto la grande povertà sono le principali cause della corruzione, secondo il rapporto 2007 di Transparency international. Peggiora la situazione in Russia e Asia centrale. Le responsabilità delle multinazionali.



Tokyo (AsiaNews/Agenzie) – Aumenta la corruzione nei Paesi più poveri, spesso fomentata “da ditte multinazionali di Paesi ricchi” per trarre vantaggi illeciti. E’ quanto emerge dal Rapporto 2007 di Transparency International (Ti), che vede il Myanmar al primo posto come Paese più corrotto, insieme alla Somalia. “Queste ditte – prosegue il rapporto – considerano la corruzione una legittima strategia aziendale” per operare nei mercati esteri e ottenere vantaggi di ogni tipo.

Sotto accusa anche “le istituzioni finanziarie internazionali, che permettono a funzionari corrotti di far sparire e riciclare i fondi”, prosegue il rapporto citando gli esempi di Filippine e Nigeria, dove i funzionari lucrano milioni di dollari. Anche una situazione di guerra favorisce l’espandersi del fenomeno, come in Iraq e Afghanistan che figurano al 3° e 7° posto, come pure un governo dittatoriale come il Myanmar.

“Un sistema giudiziario indipendente e professionale – dice ancora il rapporto – è decisivo per eliminare l’impunità e rinforzare un’applicazione imparziale della legge”, mentre è “improbabile” alcun miglioramento se non è possibile colpire i funzionari corrotti e privarli dei guadagni illeciti.

Il 40% dei 180 Stati considerati sono classificati come “molto corrotti” e si tratta dei Paesi più poveri del mondo. Tra essi Uzbekistan (5°), Laos (10°), Turkmenistan, Cambogia e Bangladesh (14° ex aequo), Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Azerbaigian (insieme al 20° posto), ma anche la Russia (35° posto, insieme all’Indonesia).

Negli Stati ex sovietici dell’Asia centrale la situazione è molto peggiorata rispetto al 2006. Miklos Marschall, direttore per Europa ed Asia centrale di Ti, ritiene dipenda dalla “crescente influenza della Russia”, che peraltro ha un indice di corruzione poco minore di questi Stati. “La comunità finanziaria internazionale ritiene che in Russia il settore pubblico sia abbastanza corrotto – prosegue – e, ciò che è più allarmante, la situazione va peggiorando”.

Buone notizie per Singapore (177°), Hong Kong (167°) e Giappone (162°, meglio degli Stati Uniti al 160° posto), mentre la corruzione rimane “diffusa” in India e Cina (insieme alla posizione n.101).

Huguette Labelle, presidente di Ti, commenta che la corruzione “assorbe immense risorse che dovrebbero essere destinate a sanità, istruzione e infrastrutture”. “Ma i Paesi poveri non possono da soli sostenere l’impegno di una riforma” per eliminare connivenze e nepotismo: sono invece i “donatori internazionali” e i Paesi ricchi che debbono favorire questo cambiamento e vigilare che la loro attività non favorisca la corruzione.

lunedì, ottobre 01, 2007

Conosciamo Than Shwe capo della giunta militare in Birmania

Un dittatore tra superstizione e ferocia
Il generale ha mostrato spietatezza nell'eliminare gli avversari e tende ad apparire il meno possibile in pubblico


Un bizzarro miscuglio di Pol Pot e Augusto Pinochet. Questo è per tanti osservatori internazionali il generale Than Shwe, 74 anni, capo della giunta militare golpista che opprime Myanmar, l’ex Birmania. L’aspetto del capo del Consiglio statale per la pace e lo sviluppo (SPDC), questa la stridente denominazione con cui si definisce la giunta golpista, ricorda quella del dittatore cileno, con la sua divisa appesantita da medaglie. La poca propensione ad apparire, invece, ricorda quella del capo dei Khmer Rossi. A tutti e due l’accomuna la spietatezza nell’eliminare gli avversari e nell’opprimere il proprio stesso popolo. Reporters sans Frontieres, l’organizzazione non governativa che si batte per la libertà di stampa, lo annovera tra i "Predatori" del diritto d’informazione e lo descrive come un uomo spesso affetto da "crisi di paranoia", la cui voce non è conosciuta dal suo popolo.
LA NUOVA CAPITALE - Ancor meno oggi, dopo che dal 2005 ha letteralmente deportato l’intera amministrazione dalla capitale storica a Pyinmanaw, la nuova "capitale": un villaggio malsano nel centro del paese. Il passo, da un lato, è servito a piegare la volontà di tanti esponenti dell’amministrazione civile, in cui serpeggia l’insoddisfazione e, quindi, i germi d’una possibile rivolta. D’altro canto, secondo diversi osservatori, sarebbe una specie di preludio d’una restaurazione monarchica, in cui Than Shwe diventerebbe re.
SUPERSTIZIONE E FEROCIA - Superstizioso in maniera ossessiva, il



generale nato nella zona di Mandalay ha iniziato la sua ascesa nell’esercito, facendo parte tra il 1953 e il 1960 del Dipartimento per le operazioni psicologiche e la propaganda. Poi partecipa alla repressione della guerriglia dell’etnia Karen, segnalandosi per una particolare ferocia. E’ nel 1962 che sale sul carro giusto, unendosi al colpo di stato capeggiato dal generale Ne Win. Diviene, cioè, uno dei protagonisti degli eventi che pongono fine al sogno democratico della Birmania post-indipendenza, iniziato col padre della patria Aung San, assassinato nel 1947 (Aung San è il padre del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che Than costringe agli arresti domiciliari).
Entrato così nel partito unico al potere, Than Shwe è poi emerso come uno dei nuovi potenti dopo l’insurrezione repressa del 1988. Con il secondo colpo di Stato del ’90 ha ulteriormente allargato il suo potere, allontanando a uno a uno i possibili avversari. Nel ’92 è diventato il numero uno della giunta, imponendo al predecessore Saw Maung le dimissioni «per motivi di salute». Negli anni successivi ha consolidato il suo dominio al punto da abolire, nel 2003, la norma che imponeva il pensionamento dalle cariche politiche al compimento dei 70 anni: e Than Shwe ovviamente è del ’33.

corriere.it

venerdì, settembre 28, 2007

Ecco a voi l'ultima trovata: il manuale del piccolo ateo.

Choc a scuola, arriva un manuale per piccoli atei

di Andrea Tornielli

Roma - Il titolo è inequivocabile: Il Piccolo Ateo. Il sottotitolo pure: «Anti Catechismo per giovani che non si vogliono fare fregare». Lo ha messo nero su bianco Calogero Lillo Martorana, napoletano, professore nelle scuole superiori e «ateo razionalista». A dispetto di quel «giovani» che appare sulla copertina si tratta di un testo pensato e scritto per i bambini e i ragazzi delle medie. Per iniziarli all’ateismo sin dalla più tenera età, mettendo in ridicolo il cattolicesimo. «Lo abbiamo ricevuto da nostri associati e circola in varie scuole del Nord Italia», segnala Barbara Sciarra, capo ufficio stampa del GRIS, il Gruppo cattolico di ricerca e informazione socio-religiosa.

In 52 pagine a caratteri molto grandi il docente ateo cerca di convertire gli alunni lanciando accuse grossolane. «Per “credere” non c’è bisogno né di avere un’istruzione né di avere una testa che pensa; anzi, per credere, l’intelligenza, la saggezza, la razionalità e l’istruzione (quindi la scuola) sono tutte cose dannosissime», scrive Martorana cercando di far passare per ebeti miliardi di credenti. Come «ottima prova» della non esistenza di Dio, l’autore propone, in venti righe, l’esistenza della sofferenza, mentre poco dopo spiega che è «la paura della morte a farci illudere che c'è Dio». «La fede - scrive ancora - è proprio una benda sugli occhi, non c’è altro modo per definirla! E non c’è proprio niente di eroico in essa, perché chi si illude così significa che non vuole ragionare, significa che non vuole capire». Qualche altra chicca tratta dal volumetto: «Ci vuole qualcuno per mettere le anime dentro tutti i neonati: e da dove le prendono? C’è una fabbrica? E secondo quali criteri le distribuiscono? E se a qualcuno capita l'anima di un altro?».

Monologhi buoni per un canovaccio da cabaret, se letti da un adulto, che possono però essere subdolamente efficaci su un bambino.

Parlando dell’eucaristia, l’autore osserva: «Nella fantasia credulona dei cristiani, “comunione” significa entrare in contatto con Dio; attraverso l’ingoio dell’ostia, i cristiani credono che Dio entri in noi e in tal modo noi diventiamo “vaccinati” contro le tentazioni e sciocchezze simili... La prima comunione, come altre cose simili, serve solo al Vaticano per non perdere i fedeli per strada». In un altro capitolo, dal titolo inequivoco «Dio ci rende schiavi», il professore ateo scrive: «I cattolici cominciano molto presto le proprie violenze alla tua libertà, col battesimo, iscrivendoti per forza nei loro registri; e poi proseguono minacciando l’Inferno se non fai quello che vogliono loro, ricattandoti col “peccato” che ti costringe ad aver paura di tutto (specialmente del sesso), chiamando “buoni” i cristiani e “cattivi” gli altri, cercando in tutti i modi di renderti servo sciocco di un invisibile dio e di un papa arrogante e autoritario». Su molte grandi questioni, come il bene e il male, il docente catechizza così i suoi piccoli aspiranti: «Non c’è il male sicuro e non c’è il bene sicuro, tutto dipende da noi, da come noi pensiamo le cose, dall’epoca in cui nasciamo, dalla zona del mondo in cui viviamo, eccetera». Mentre questi sono i consigli sul sesso: «Coi genitori, coi preti e con gli adulti in genere, non potrai mai parlare di sesso!... I genitori che sembrano più “moderni” arrivano a dire che il sesso va fatto solo quando c’è l'amore; ma questo non significa proprio niente, il sesso e l’amore sono due cose distinte, meglio se stanno insieme, ma non è obbligatorio».
Il manualetto si conclude con una carrellata di paragrafetti che contengono una livorosa sintesi di duemila anni di storia e presentano i cristiani sempre come i «cattivi», adossando alla Chiesa cattolica (sic!) persino il genocidio del Ruanda.

© Copyright Il Giornale, 20 settembre 2007


"Operazione grossolana per aggredire la fede cristiana"

di Andrea Tornielli

«Si aggredisce brutalmente la tradizione cristiana, disprezzandola per il puro gusto di disprezzarla». È preoccupato il vescovo di San Marino e Montefeltro, monsignor Luigi Negri, dopo aver scorso il manualetto del piccolo ateo che si cerca di diffondere nelle scuole.

La prima reazione?

«Siamo di fronte a un anti cristianesimo becero e alla non volontà di dialogare e di discutere anche mettendo in campo ipotesi alternative a quella cattolica ma suffragate con una consistenza culturale. Mi è sembrata la traduzione stupida e grossolana dell’Enciclopedia degli Illuministi: ha la stessa presunzione, ma con due secoli di usura e un livello infinitamente più basso. Ricordo che Voltaire usava per la sua corrispondenza della carta con stampato in cima al foglio “Distruggete l’infame”. E si riferiva alla Chiesa».

L’autore vuole «convertire» all’ateismo le giovani generazioni...

«Lo stile è quello di chi si rivolge ai bambini, è lavolontà di distruggere la fede inun momento in cui c’è attesa e accoglienza. Proprio in un momento in cui sono cadute le ideologie e viviamo una situazione di debolezza nelle motivazioni e di domanda fortissima da parte dei giovani di esperienze vere e grandi, quella persona non ha saputo fare altro che proporre un surrogato trash di scientismo fai-da-te».

Il Gris sostiene che questa pubblicazione si sta diffondendo nelle scuole del Nord. Perché, secondo lei, questo avviene?

«Queste bassezze si diffondono perché non abbiamo ancora trovato il modo di ridar forza a una tradizione popolare che ha formato la nostra gente e che oggi ci si può permettere di trattare come meno di niente. Il manuale del piccolo ateo è la prova di un disastro antropologico. Oggi trattano così il cattolicesimo, domani potrebbero farlo con qualsiasi altra tradizione religiosa».

© Copyright Il Giornale, 20 settembre 2007

Link consigliatissimo:
http://paparatzinger-blograffaella.blogspot.com/

martedì, settembre 25, 2007

Consigli per il risparmio energetico


Non so le finalità della società, ma credo che nella campagna "ENI 30%" ci siano dei buoni consigli per un positivo risparmio per le nostre tasche (sempre più vuote) e la possibilità di dare un pò di respiro al nostro caro ambiente. (sempre più malato) Credo che dobbiamo invertire la tendenza...... i protagonisti di questa sfida siamo noi!!!

ENI 30%

lunedì, settembre 24, 2007

Cari amici...questa è la....CINA!!!

I lager cinesi che fabbricano
il sogno occidentale






Per confezionare un paio di Timberland, vendute in Europa a 150 euro, nella città di Zhongshan un ragazzo di 14 anni guadagna 45 centesimi di euro. Lavora 16 ore al giorno, dorme in fabbrica, non ha ferie né assicurazione malattia, rischia l'intossicazione e vive sotto l'oppressione di padroni-aguzzini. Per fabbricare un paio di scarpe da jogging Puma una cinese riceve 90 centesimi di euro: il prezzo in Europa è 178 euro per il modello con il logo della Ferrari. Nella fabbrica-lager che produce per la Puma i ritmi di lavoro sono così intensi che i lavoratori hanno le mani penosamente deformate dallo sforzo continuo.

Gli operai cinesi che riforniscono i nostri negozi - l'esercito proletario che manda avanti la "fabbrica del mondo" - cominciano a parlare. Rivelano le loro condizioni di vita a un'organizzazione umanitaria, forniscono prove dello sfruttamento disumano, del lavoro minorile, delle violenze, delle malattie. Qualche giornale cinese rompe l'omertà. Ci sono scioperi spontanei, in un Paese dove il sindacato unico sta dalla parte dei padroni. Vengono alla luce frammenti di una storia che è l'altra faccia del miracolo asiatico, una storia di sofferenze le cui complicità si estendono dal governo di Pechino alle multinazionali occidentali.
La fabbrica dello "scandalo Timberland" è nella ricca regione meridionale del Guangdong, il cuore della potenza industriale cinese, la zona da cui ebbe inizio un quarto di secolo fa la conversione accelerata della Cina al capitalismo.

L'impresa di Zhongshan si chiama Kingmaker Footwear, con capitali taiwanesi, ha 4.700 dipendenti di cui l'80% donne. Ci lavorano anche minorenni di 14 e 15 anni. La maggioranza della produzione è destinata a un solo cliente, Timberland. Kingmaker Footwear è un fornitore che lavora su licenza, autorizzato a fabbricare le celebri scarpe per la marca americana. Le testimonianze dirette sui terribili abusi perpetrati dietro i muri di quella fabbrica sono state raccolte dall'associazione umanitaria China Labor Watch, impegnata nella battaglia contro lo sfruttamento dei minori e le violazioni dei diritti dei lavoratori.

Le prove sono schiaccianti. Di fronte a queste rivelazioni il quartier generale della multinazionale ha dovuto fare mea culpa. Lo ha fatto in sordina; non certo con l'enfasi con cui aveva pubblicizzato il premio di "migliore azienda dell'anno per le relazioni umane" decretatole dalla rivista Fortune nel 2004. Ma attraverso una dichiarazione ufficiale firmata da Robin Giampa, direttore delle relazioni esterne della Timberland, ora i vertici ammettono esplicitamente: "Siamo consapevoli che quella fabbrica ha avuto dei problemi relativi alle condizioni di lavoro. Siamo attualmente impegnati ad aiutare i proprietari della fabbrica a migliorare".

I "problemi relativi alle condizioni di lavoro" però non sono emersi durante le regolari ispezioni che la Timberland fa alle sue fabbriche cinesi (due volte l'anno), né risultano dai rapporti del suo rappresentante permanente nell'azienda. Sono state necessarie le testimonianze disperate che gli operai hanno confidato agli attivisti umanitari, rischiando il licenziamento e la perdita del salario se le loro identità vengono scoperte. "In ogni reparto lavorano ragazzi tra i 14 e i 16 anni", dicono le testimonianze interne: uno sfruttamento di minori che in teoria la Cina ha messo fuorilegge. La giornata di lavoro inizia alle 7.30 e finisce alle 21 con due pause per pranzo e cena, ma oltre l'orario ufficiale gli straordinari sono obbligatori.

Nei mesi di punta d'aprile e maggio, in cui la Timberland aumenta gli ordini, "il turno normale diventa dalle 7 alle 23, con una domenica di riposo solo ogni 2 settimane; gli straordinari s'allungano ancora e i lavoratori passano fino a 105 ore a settimana dentro la fabbrica". Gli informatori dall'interno dello stabilimento hanno fornito 4 esemplari di buste paga a China Labor Watch. La paga mensile è di 757 yuan (75 euro) "ma il 44% viene dedotto per coprire le spese di vitto e alloggio". Vitto e alloggio significa camerate in cui si ammucchiano 16 lavoratori su brandine di metallo, e una mensa dove "50 lavoratori sono stati avvelenati da germogli di bambù marci". In fabbrica i manager mantengono un clima d'intimidazione "incluse le violenze fisiche; un'operaia di 20 anni picchiata dal suo caporeparto è stata ricoverata in ospedale, ma l'azienda non le paga le spese mediche".

Un mese di salario viene sempre trattenuto dall'azienda come arma di ricatto: se un lavoratore se ne va lo perde. Altre mensilità vengono rinviate senza spiegazione. L'estate scorsa il mancato pagamento di un mese di salario ha provocato due giorni di sciopero.
Anche il fornitore della Puma è nel Guangdong, località Dongguan. Si chiama Pou Yuen, un colosso da 30.000 dipendenti. In un intero stabilimento, l'impianto F, 3.000 operai fanno scarpe sportive su ordinazione per la multinazionale tedesca. La lettera di un operaio descrive la sua giornata-tipo nella fabbrica. "Siamo sottoposti a una disciplina di tipo militare. Alle 6.30 dobbiamo scattare in piedi, pulirci le scarpe, lavarci la faccia e vestirci in 10 minuti. Corriamo alla mensa perché la colazione è scarsa e chi arriva ultimo ha il cibo peggiore, alle 7 in punto bisogna timbrare il cartellino sennò c'è una multa sulla busta paga. Alle 7 ogni gruppo marcia in fila dietro il caporeparto recitando in coro la promessa di lavorare diligentemente. Se non recitiamo a voce alta, se c'è qualche errore nella sfilata, veniamo puniti. I capireparto urlano in continuazione. Dobbiamo subire, chiunque accenni a resistere viene cacciato. Noi operai veniamo da lontani villaggi di campagna. Siamo qui per guadagnare. Dobbiamo sopportare in silenzio e continuare a lavorare. (...) Nei reparti-confezione puoi vedere gli operai che incollano le suole delle scarpe. Guardando le loro mani capisci da quanto tempo lavorano qui. Le forme delle mani cambiano completamente. Chi vede quelle mani si spaventa. Questi operai non fanno altro che incollare... Un ragazzo di 20 anni ne dimostra 30 e sembra diventato scemo. La sua unica speranza è di non essere licenziato. Farà questo lavoro per tutta la vita, non ha scelta. (...) Lavoriamo dalle 7 alle 23 e la metà di noi soffrono la fame. Alla mensa c'è minestra, verdura e brodo. (...) Gli ordini della Puma sono aumentati e il tempo per mangiare alla mensa è stato ridotto a mezz'ora. (...) Nei dormitori non abbiamo l'acqua calda d'inverno". Un'altra testimonianza rivela che "quando arrivano gli uomini d'affari stranieri per un'ispezione, gli operai vengono avvisati in anticipo; i capi ci fanno pulire e disinfettare tutto, lavare i pavimenti; sono molto pignoli".

Minorenni alla catena di montaggio, fabbriche gestite come carceri, salari che bastano appena a sopravvivere, operai avvelenati dalle sostanze tossiche, una strage di incidenti sul lavoro. Dietro queste piaghe c'è una lunga catena di cause e di complicità. Il lavoro infantile spesso è una scelta obbliga per le famiglie. 800 milioni di cinesi abitano ancora nelle campagne dove il reddito medio può essere inferiore ai 200 euro all'anno. Per i più poveri mandare i figli in fabbrica, e soprattutto le figlie, non è la scelta più crudele: nel ricco Guangdong fiorisce anche un altro mercato del lavoro per le bambine, quello della prostituzione. Gli emigranti che arrivano dalle campagne finiscono nelle mani di un capitalismo cinese predatore, avido e senza scrupoli, in un paese dove le regole sono spesso calpestate. Alla Kingmaker che produce per la Timberland, gli operai dicono di non sapere neppure "se esiste un sindacato; i rappresentanti dei lavoratori sono stati nominati dai dirigenti della fabbrica".

Le imprese che lavorano su licenza delle multinazionali occidentali, come la Kingmaker e la Pou Yuen, non sono le peggiori. Ancora più in basso ci sono i padroncini cinesi che producono in proprio. Per il quotidiano Nanfang di Canton, i due giornalisti Yan Liang e Lu Zheng sono riusciti a penetrare in un distretto dell'industria tessile dove il lavoro minorile è la regola, nella contea di Huahu. Hanno incontrato Yang Hanhong, 27 anni, piccolo imprenditore che recluta gli operai nel villaggio natale. Ha 12 minorenni alle sue dipendenze. Il suo investimento in capitale consiste nell'acquisto di forbici e aghi, con cui i ragazzini tagliano e cuciono le rifiniture dei vestiti. "La maggior parte di questi bambini - scrivono i due reporter - soffrono di herpes per l'inquinamento dei coloranti industriali. Con gli occhi costretti sempre a fissare il lavoro degli aghi, tutti hanno malattie della vista. Alla luce del sole non possono tenere aperti gli occhi infiammati. Lamentano mal di testa cronici. Liu Yiluan, 13 anni, non può addormentarsi senza prendere 2 o 3 analgesici ogni sera. Il suo padrone dice che Liu gli costa troppo in medicinali".

Se mai un padrone venisse colto in flagrante reato di sfruttamento del lavoro minorile, che cosa rischia? Una multa di 10.000 yuan (mille euro), cioè una piccola percentuale dei profitti di queste imprese. La revoca della licenza invece scatta solo se un bambino "diventa invalido o muore sul lavoro". Comunque le notizie di processi e multe di questo tipo scarseggiano. La battaglia contro lo sfruttamento del lavoro minorile non sembra una priorità per le forze dell'ordine.
Tra le marche straniere Timberland e Puma sono il campione rappresentativo di una realtà più vasta. Per le opinioni pubbliche occidentali le multinazionali compilano i loro Social Reports, quei "rapporti sulla responsabilità sociale d'impresa" di cui la Nike è stata il precursore. Promettono trasparenza sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche dei loro fornitori. Salvo "scoprire" con rammarico che i loro ispettori non hanno visto, che gli abusi continuano. Diversi auditor denunciano il fatto che in Cina ora prolifera anche la contraffazione delle buste-paga, i falsi cartellini orari, le relazioni fasulle degli ispettori sanitari: formulari con timbri e numeri artefatti per simulare salari e condizioni di lavoro migliori, documenti da dare alle multinazionali perché mettano a posto le nostre coscienze. La Nike nel suo ultimo Rapporto Sociale dice delle sue fabbriche cinesi che "la falsificazione da parte dei manager dei libri-paga e dei registri degli orari di lavoro è una pratica comune".

La parte delle belle addormentate nel bosco non si addice alle multinazionali. I loro ispettori possono anche essere ingenui ma i numeri, i conti sul costo del lavoro, li sanno leggere bene in America e in Germania (e in Francia e in Italia). La Puma sa di spendere 90 centesimi di euro per un paio di sneakers, gli stessi su cui poi investe ben 6 euro in costose sponsorizzazioni sportive. La Timberland sa di pagare mezzo euro l'operaio che confeziona scarpe da 150 euro.

Hu Jintao, presidente della Repubblica popolare e segretario generale del partito comunista cinese, ha accolto lunedì a Pechino centinaia di top manager, industriali e banchieri stranieri venuti per il Global Forum di Fortune. Il discorso di Hu di fronte ai rappresentanti del capitalismo mondiale è stato interrotto da applausi a scena aperta. Il quotidiano ufficiale China Daily ha riassunto il suo comizio con un grande titolo in prima pagina: "You come, you profit, we all prosper". Voi venite, fate profitti, e tutti prosperiamo. Non è evidente chi sia incluso in quei "tutti", ma è chiaro da che parte sta Hu Jintao.

giovedì, settembre 13, 2007

I cristiani ripopolano l'Arabia, quattordici secoli dopo Maometto

Negli Emirati Arabi Uniti potrebbero essere presto la maggioranza della popolazione. E anche in Arabia Saudita sono sempre più numerosi. Chi sono. Da dove vengono. Come vivono. Un reportage da Dubai e Abu Dhabi


di Sandro Magister


ROMA, 31 agosto 2007 – Tre mesi fa giusti, il 31 maggio, la Santa Sede ha allacciato le relazioni diplomatiche e ha scambiato gli ambasciatori con gli Emirati Arabi Uniti.


Pochi l'hanno notato, ma gli Emirati Arabi Uniti sono il paese islamico con la più alta presenza di cristiani.

Ed è una presenza nuova e in crescita. Tutto l'opposto di quanto avviene in altre regioni del Medio Oriente come l'Iraq, il Libano, la Terra Santa, dove comunità cristiane di antichissime origini addirittura rischiano di scomparire.

Gli Emirati Arabi Uniti sono una federazione di sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Al-Fujayrah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaiwain, situati lungo la costa centro-orientale della penisola arabica. La capitale è Abu Dhabi. La religione ufficiale è l'islam, cui appartiene la quasi totalità dei cittadini.

Ma molto più numerosi dei cittadini sono gli immigrati. Su oltre 4 milioni di abitanti, gli stranieri sono oggi più del 70 per cento, provenienti da altri paesi arabi, dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh, dalle Filippine.

Di questi lavoratori stranieri, più della metà sono cristiani. Tirate le somme, negli Emirati Arabi Uniti i cristiani sono più del 35 per cento della popolazione. I cattolici sfiorano il milione. E non solo lì. Anche in Arabia Saudita si stima che i cattolici provenienti dalle Filippine siano già attorno al milione.

Ma chi sono e come vivono questi cristiani in terra d'Arabia? Qual è il volto di questa Chiesa giovane e in crescita? Quali sono i suoi margini di libertà?

Il reportage che segue risponde a queste domande. È uscito domenica 19 agosto sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire":


La Chiesa sommersa degli Emirati Arabi Uniti

di Fabio Proverbio


È pomeriggio e in compagnia di Santos e Lea attraverso in auto la frenetica Dubai. Intorno a me voluminosi Suv che a fatica avanzano nel congestionato traffico urbano, lussuosi e modernissimi edifici, immensi cantieri edili animati da eserciti di operai: la conferma che ci troviamo in una delle città più all'avanguardia e in fermento del pianeta.

Siamo diretti verso un luogo d'asilo messo a disposizione dalla diplomazia delle Filippine per ospitare e proteggere le giovani immigrate in fuga dai propri datori di lavoro.

Arrivato destinazione, in un elegante palazzo, incontro un centinaio di ragazze impegnate a compensare lo stato di naturale disordine generato dall'affollamento (vedi foto). Strette le une alle altre, intonano canti e preghiere, scambiandosi abbracci di reciproca consolazione. Osservo le lacrime che nessuna ragazza riesce a trattenere e cerco inutilmente di dare una ragione a tanta tristezza. Capirò al termine della preghiera, quando Santos e Lea mi raccontano le drammatiche esperienze vissute da queste giovani immigrate.

Sono storie quasi inverosimili, come quella di Beng che, stanca di essere tenuta rinchiusa nella casa dove prestava servizio e di sopportare molestie da parte dei membri della famiglia, ha tentato una disperata fuga, conclusasi con una rovinosa caduta e la rottura di un braccio. Soccorsa e condotta in ospedale da alcuni passanti, la ragazza è stata successivamente arrestata con l'accusa di tentato suicidio. L'intervento della diplomazia filippina ha finalmente rimesso in libertà l'immigrata che oggi, in questo luogo protetto, attende gli sviluppi del processo. Non miglior sorte è toccata alla domestica che ha prestato servizio dopo di lei presso la stessa famiglia: un nuovo tentativo di fuga col medesimo epilogo.

Santos e Lea fanno parte della Legione di Maria, il movimento cattolico divenuto qui il punto di riferimento per molte immigrate filippine che, in questa comunità, trovano non solo solidarietà, ma anche la necessaria assistenza legale per potersi affrancare da condizioni di lavoro spesso non corrispondenti a quelle definite nel contratto d'ingaggio.

Dopo aver salutato le giovani immigrate, che nel frattempo avevano almeno in apparenza riacquistato un principio di serenità e quello spirito gioviale che caratterizza il popolo filippino, parto per Abu Dhabi.

È domenica, ma in un paese musulmano come gli Emirati Arabi Uniti è un giorno qualsiasi. Eppure nella chiesa cattolica di San Giuseppe ad Abu Dhabi, nel tardo pomeriggio assisto a uno straordinario andirivieni di fedeli, appartenenti a gruppi etnici diversi, che qui vengono per poter partecipare alla messa celebrata nella propria lingua nazionale. Sono indiani, per lo più del Kerala o del Tamil Nadu, filippini, libanesi, iracheni o cristiani provenienti da altri paesi mediorientali, ma anche europei e americani.

Il venerdì, giorno festivo nei paesi musulmani, l'afflusso di fedeli è ancora più copioso, tanto che la chiesa non riesce a contenerli tutti. Molti devono seguire la celebrazione fuori, sul sagrato antistante, dove, in occasione di festività particolari come Natale o Pasqua, vengono allestiti degli schermi giganti per permettere a tutti la partecipazione. Tuttavia, come tiene a precisare monsignor Paul Hinder, vescovo del vicariato apostolico d'Arabia, coloro che frequentano regolarmente la parrocchia sono solo una piccola percentuale, il 15-18 per cento, della popolazione cattolica della capitale e dei dintorni.

* * *

I cristiani presenti negli Emirati Arabi Uniti rappresentano circa il 35 per cento della popolazione, per un totale di fedeli superiore al milione, in maggioranza cattolici.

Sono tutti lavoratori immigrati, molti dei quali, abitando in zone periferiche mal collegate alle città, non possono frequentare regolarmente i luoghi ufficiali di culto. È questo il caso di migliaia d'indiani occupati nei cantieri edili di Dubai ed alloggiati nel più grande villaggio-dormitorio dell'Asia che, secondo stime non ufficiali, ospiterebbe una popolazione di circa trecentomila operai. Oppure degli immigrati che lavorano nell'industria petrolifera, dislocati in lontani villaggi-oasi nel deserto.

Altro caso è quello delle domestiche filippine che, per mancanza di tempo libero o di denaro per il trasporto, restano vincolate al luogo dove lavorano. Di conseguenza, la preghiera organizzata in piccoli gruppi di fedeli, omogenei per lingua e provenienza, raccolti in ambienti privati – appartamenti, dormitori, rimesse – diviene un aspetto molto importante e diffuso dell'espressione religiosa delle comunità cattoliche. Si tratta di un momento di incontro necessario, ma rischioso per le regole imposte dalle autorità locali, che consentono la libertà di culto solo in ambiti ufficialmente riconosciuti come gli edifici parrocchiali presenti sul territorio. In questo contesto, i gruppi carismatici originari dell'India o delle Filippine assumono un ruolo importante nell'attivare iniziative a sostegno dell'immigrato che vive nelle condizioni più difficili. Spesso non si limitano ad iniziative religiose ma intervengono anche con servizi pratici d'assistenza, come nel caso della Legione di Maria.

Il fenomeno dell’immigrazione negli Emirati Arabi è relativamente recente ed è legato alla fortuna petrolifera della regione. Quando negli anni Cinquanta e Sessanta gli introiti petroliferi hanno cominciato a portare prosperità e progresso, lo sviluppo del paese ha reso necessario l’impiego di manodopera proveniente dall’estero, specializzata e non.

Oggi gli Emirati stanno subendo un processo di modernizzazione che non ha eguali nel mondo. I petroldollari vengono reinvestiti in strutture ed infrastrutture all’avanguardia, la borsa di Dubai sta assumendo importanza mondiale e il porto è tra i più frequentati del globo. Isole artificiali a forma di palma, piste da sci nel deserto, hotel dalle forme più improbabili e tutta una serie di costruzioni eccentriche – come la non ancora ultimata torre Burj Dubai, che dovrebbe essere l’edificio più alto al mondo – sono solo alcuni esempi delle "meraviglie" con cui gli emiri locali si sono proposti di sbalordire il mondo e di attirare gli investitori stranieri, che qui trovano favorevoli condizioni di investimento e un costo del lavoro bassissimo.

Gli immigrati rappresentano il 90 per cento dei quasi due milioni di lavoratori presenti negli Emirati, percentuale che raggiungere il 100 per cento per la manodopera a basso costo. Di fatto, agli arabi locali il concetto di povertà o è sconosciuto – per i più giovani – o è un ricordo sbiadito di tempi lontani. La mancanza di spinte alla realizzazione professionale ed economica – già garantite alla nascita – sta addirittura demotivando la futura classe dirigente del paese, con il rischio di renderla inadeguata ad affrontare le sfide imposte dalla globalizzazione.

Il termine stesso di "immigrato" è troppo generico per definire la realtà di chi oggi lavora per cambiare il volto del Golfo. Il vero statuto di questi lavoratori, anche di quelli che vivono ormai da parecchi anni negli Emirati, è quello di "espatriati", ovvero di persone la cui presenza nel paese è unicamente legata al possesso di un regolare contratto di lavoro, ma che mai potranno diventare residenti o acquistare case e terreni sul posto. Il loro destino è legato alle decisioni dei datori di lavoro, che spesso tengono in ostaggio il loro passaporto per timore di fughe o atti di insubordinazione. Gli ambiti di utilizzo di questa manodopera sono quelli legati all’industria petrolifera e, più recentemente, al settore edile e all’aiuto domestico.

Questi sono i nuovi poveri di Dubai e dintorni. Il loro salario mensile difficilmente supera i 150 euro, lavorano mediamente 10-12 ore al giorno, sei giorni su sette, a temperature che possono arrivare a 50 gradi centigradi. Vivono in sobborghi-dormitorio grandi quanto città, ma totalmente privi di servizi. Simili ad enormi caserme, questi villaggi sono popolati da uomini soli, per i quali la famiglia è un ricordo lontano, da raggiungere periodicamente con un vaglia postale che consentirà, ai più fortunati, di mandare a scuola i figli o di pagare i debiti di una famiglia troppo povera. Il miglior destino delle reclute di questo esercito di manovali è di poter spendere la propria vita professionale nei cantieri del Golfo con brevi visite ai propri cari ogni due-tre anni.

Parlare di povertà in un paese in rapidissima crescita economica – e che punta a diventare, per l’ambizione dei suoi governanti, uno dei poli più importanti dell’arte contemporanea, con l’apertura di musei e spazi espositivi – sembra un paradosso. Anzi, è una realtà particolarmente difficile da comprendere ed accettare per l’osservatore esterno, proprio a motivo dell’esagerata opulenza con cui si trova a convivere.

Ma anche questi aspetti vanno considerati per cercare di comprendere la realtà degli Emirati oggi: una terra di grandi contrasti, dove la tradizione si scontra con la modernità in una fusione unica, sorprendente e drammaticamente contraddittoria, di Oriente e Occidente.

mercoledì, settembre 12, 2007

Apriamo gli occhi sullo stato dei nostri mari



Le ricadute dell'effetto serra. E i crescenti rischi in Adriatico





Ormai è evidente che il mutamento climatico in atto si traduce in diversi e importanti effetti, uno dei quali, il più noto, è l'aumento della temperatura dell'aria. C'è però un secondo e fondamentale elemento ambientale che è soggetto al riscaldamento: l'acqua. Si parla spesso dell'aumento del livello dei mari per la fusione dei ghiacci (altro effetto del cambiamento del clima), ma non bisogna dimenticare che gli oceani si stanno "gonfiando" anche per dilatazione termica, legge alla quale in natura sono soggetti tutti i corpi: solidi, liquidi e gassosi. Il "sesto continente" sta dunque cambiando, e non solo dimensioni. L'aumento della temperatura altera gli equilibri degli organismi viventi nelle acque e negli ambienti circostanti (litorali, insenature, paludi). È esperienza vissuta da molti italiani la fastidiosa presenza di alghe e mucillagini sulle sponde adriatiche. Ma è in gioco qualcosa di molto più importante: la catena alimentare del mare, dal plancton (microorganismi) ai piccoli crostacei, ai pesci, fino alle più grandi creature, ogni anello del processo vitale costiuisce un elemento indispensabile minacciato dal riscaldamento. Un'altra conseguenza - messa in luce in questi giorni dalla comunità scientifica in occasione dell'imminente Conferenza nazionale di Roma sui cambiamenti climatici - è il possibile mutamento delle correnti del Mediterraneo. Un mare che si alimenta e "vive", perché si muove e si mescola non solo grazie alle precipitazioni atmosferiche, ai venti e al moto ondoso, ma anche in virtù delle correnti marine. Che, come noto, sono tanto superficiali quanto profonde. La circolazione, nel Mediterraneo come nei ben più aperti e vasti oceani, si compie e si chiude secondo clicli, grazie a correnti a diversi livelli che scambiano acque più o meno fredde e più o meno salate con movimenti di risalita e di affondamento (upwelling e downwelling). Quelle più fredde sono ricche di preziose sostanze nutritive. Il Mediterraneo ha un a corrente di scambio ovest-est con il vicino Atlantico (grazie a Gibilterra non siamo isolati). A pari latitudine, la superficie del nostro mare è più calda di 5 gradi in inverno e fino a 10 gradi in estate rispetto a quella oceanica. Ed è più salata (37 grammi di sali in un litro d'acqua, contro il 35 per mille atlantico). Ma esistono altre tre correnti, dirette secondo i meridiani: quella del Golfo del Leone, quella dell'Egeo e quella del Golfo di Trieste. Il riscaldamento dell'Adriatico potrebbe rallentare quest'ultima, e dunque cambiare gli equilibri dinamici e ambientali, diminuendo o non più assicurando i necessari apporti nutritivi. Va ricordato, infine, che l'effetto serra accelera. Il mare è un nostro potente alleato, perché assorbe grandi quantità di anidride carbonica (CO2, uno dei gas responsabili). Si stima, solo per fare un esempio, che che nel tratto compreso tra il Golfo di Napoli e le isole Eolie venga "catturato" mezzo milione di tonnellate di CO2. Oggi, insomma, gli oceani bloccano grosso modo la metà dell'anidride. E però anche nell'ambiente marino, che si scalda con maggiore lentezza dell'aria, specie in profondità; la situazione sta cambiando: la temperatura del Tirreno (fino a 100 metri in basso) è salita nello scorso inverno di 2 gradi rispetto al valore normale; e l'Adriatico ha i fondali assai più bassi e può scaldarsi con maggiore facilità. Un mare più caldo assorbe meno CO2 e, così, l'effetto serra si autoalimenta. Nessuno può affermare che non vi è più tempo per correre ai ripari. Ma nessuno può più permettersi di sprecarlo a trastullarsi con il pensiero di una natura infinitamente paziente e, ancor meno, con le "magnifiche sorti e progressive" che dovrebbe assicurarci la tecnica.

venerdì, maggio 18, 2007

Amare e difendere la vita che nasce



In fuga dalla madre per non abortire
Genova, ragazza va dalla polizia: affidata a una comunità. La Curia: la aiutiamo noi

GENOVA — Diciassette anni, al terzo mese di gravidanza, ecuadoriana, si è presentata accompagnata dalla sorella quindicenne alla questura di Genova chiedendo aiuto: la madre voleva costringerla ad abortire a suon di schiaffi e minacce ma lei, chiamiamola Rosa, quel bambino voleva farlo nascere. «Mia madre mi ammazzerà di botte» ha raccontato all’ispettore Claudio Boldrini. E non scherzava. Alle spalle di Rosa e della sorella minore una vita di continue violenze fisiche, cinghiate, bastonate, e percosse, dice Boldrini, «inferte con un nerbo di bue che ha lasciato cicatrici e piaghe».
LA FAMIGLIA — Una madre sola (il padre di Rosa è rimasto in Ecuador), una famiglia allargata al femminile, lamamma, le zie, altre due sorelle maggiorenni tutte in lotta per la sopravvivenza e preoccupate che le «piccole» rigassero dritto. A suon di botte. Rosa va a scuola, frequenta il secondo anno di un istituto tecnico, la sorella minore è al primo anno. Si sono innamorate, di ragazzi come loro. Ma Rosa è rimasta incinta. Ha fatto i test, le analisi per avere una conferma e il 9 maggio la certezza: aspettava un bambino. Lo ha detto in famiglia e ha spiegato di volere quel figlio, ha ricevuto solo botte e minacce per convincerla a disfarsi alla svelta di quella «bocca in più da sfamare». Il padre del bambino è un diciassettenne, ecuadoriano anche lui, ha un lavoro ed è pronto, nella sua giovinezza, «a prendersi le sue responsabilità» come ha detto agli agenti. Rosa è pronta a tenersi il bambino a ogni costo perché, ha ripetuto più volte, «è frutto di un atto di amore», una frase che ha colpito l’ispettore Boldrini: «Era molto decisa ma aveva una grandissima paura di tornare a casa. Era certa che la madre e le sorelle l’avrebbero costretta in qualche modo ad abortire. Non proprio a botte magari, ma la minaccia era anche quella....».
L’ASSISTENZA — Ora Rosa e la sorella — spiega il dirigente dell’anticrimine Francesco Maria Delavigne—sono state affidate a una struttura protetta a Genova, dove Rosa riceverà l’assistenza per la gravidanza. La madre (che ha regolare permesso di soggiorno) è stata denunciata per maltrattamenti. Inizia adesso un iter di tutela che non porterà necessariamente alla separazione fra Rosa, la sorella e la madre. Rosa, nel suo lungo colloquio alla sezione minori, ha detto di essere credente. La sua storia non può non colpire in questi giorni, all’indomani del monito di monsignor Betori, segretario della Cei, sulla «battaglia» che la Chiesa deve condurre contro aborto e eutanasia.
LA CHIESA — «Non si può non sottolineare — dice monsignor Pietro Pigollo, direttore dell’ufficio per la famiglia e la vita della Curia di Genova — come questa ragazza, in una situazione difficile, abbia scelto la vita. Ha difeso la persona più debole, il bambino che deve nascere. Ma troppo spesso si lasciano sole le persone con la loro scelta. È necessario invece essere prossimi, questo è un termine cristiano, che significa qualcosa di più dell’essere vicini. Siamo prossimi a lei, al bambino e anche alla sua famiglia. Scegliendo di avere un bambino quando si è così giovani, in qualche modo si scommette sulla Provvidenza. Questa giovane ha bisogno di aiuto e, se vorrà, anche noi saremo in grado di darlo».

Erika Dellacasa

Corriere della Sera 18 maggio 2007

lunedì, gennaio 15, 2007

In nessun momento siamo massa informe

Grideremo sempre + forte in difesa della Vita!!


Definiti nelle prime 24 ore

Marina Corradi

Il "progetto" di un embrione è già definito 24 ore dopo il concepimento. Quando lo zigote, la prima cellula nel nuovo organismo, si è moltiplicata appena due volte, già ha un asse che resterà riconoscibile nell'asse di sviluppo dell'individuo. E già è definito esattamente da quali cellule si svilupperà la nuova creatura, e quali invece formeranno la placenta.
Lo afferma una ricerca dell'Università di Cambridge - anticipata da «Nature» - che dopo lunghi studi sugli embrioni dei topi contraddice quella che era fino a pochi anni fa convinzione generale dell'embriologia: e cioè che per diversi giorni dopo il concepimento l'embrione sia semplicemente una massa informe di cellule, destinate a una differenziazione solo dopo l'annidamento nell'utero materno.
Il lavoro potrebbe avere delle ripercussioni sulla ricerca con le staminali, e anche sulla medicina prenatale. Una "differenziazione" cellulare così precoce porrebbe il problema di quei prelievi tendenti a accertare malattie genetiche ereditarie, che vengono effettuati quando l'embrione si è moltiplicato a otto cellule. Benché sia conosciuta la "flessibilità" dell'embrione nei suoi primi stadi, il dubbio che insorge è che si debba prestare attenzione a "quali" di queste cellule vengono prelevate.
Ma, al di là delle conseguenze pratiche, l'annuncio di Cambridge assume un altro valore: nei mammiferi, e dunque nell'uomo, l'embrione non è, nemmeno nelle primissime duplicazioni, massa amorfa, non è materia grezza in attesa di essere organizzata. Non è "cosa", ma - fin dal principio - disegno. Già 24 ore dopo i compiti sono stabiliti, la mappa del nuovo individuo segnata e, diremmo anzi, scritta.
Addirittura si fa l'ipotesi che il punto stesso della penetrazione dello spermatozoo nell'ovocita "indirizzi" lo sviluppo dell'organismo. Quel punto infinitesimale nel buio non cadrebbe dunque dove vuole, nella casualità di una natura cieca. Invece, si tratterebbe di un luogo preciso, come voluto - quello e non un altr o, perché già da tale particolare inclinazione nella sfera dello zigote verrebbe la prima traccia del nascituro. «C'è la memoria della prima scissione cellulare, nella nostra vita», ha scritto commentando un lavoro precedente Magdalena Zernicka-Goetz, autrice del lavoro pubblicato da «Nature».
La memoria di una impronta originaria, diversa da ogni altra fin dal primo giorno. In nessun momento un uomo uguale alla pura materia, o indistinguibile da ogni altro suo simile. Già nell'oscurità profonda dell'inizio, un disegno unico, mai ripetuto né più ripetibile. Quattro cellule e dentro, pronto a dispiegarsi, il cervello, le mani, gli occhi di un figlio.
Gli uomini, in questo buio di cui ancora sanno così poco vanno a mettere le loro mani orgogliose: tolgono, manipolano, selezionano. Come se fosse "roba". Come se fosse un niente. Mentre c'è tutto, lì dentro, nascosto in un microscopico infinito: un altro uomo, dunque un mondo intero.
C'è una scienza, oggi, che dopo la pretesa arrogante comincia a dirci: eppure, il primo giorno già c'è un disegno. Commuove, una scienza capace di essere così grande, e umile insieme. Ma che già tutto fosse scritto, il primo giorno e, crediamo anzi, fin dal primo istante, altri uomini l'avevano intuito. «Non ti era occulto il mio essere/ allorché io fui formato nel segreto/ ed ero intessuto nelle profondità della terra», cantava un ignoto salmista ebreo, forse tremila anni fa.

mercoledì, gennaio 10, 2007

Viva le BUONE NUOVE!!

Vi devo presentare un grandioso sito!!
Siamo stanchi delle notizie brutte dei tg vero??
E allora beccatevi: